Dolore lombare: evidenze dalla pratica clinica. Studio osservazionale longitudinale su 182 pazienti - Pathos

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Dolore lombare: evidenze dalla pratica clinica. Studio osservazionale longitudinale su 182 pazienti

Low back pain: evidence from clinical practice. Observational longitudinal study on 182 patients
Studio osservazionale
Pathos 2021; 28, 3. Online 2021, Oct 26
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Claudio Santoro,1 Michela D'Oro,2 Jessica Vella2
1 Laboratorio di Neurologia Funzionale
2 Laboratorio di Biomeccanica
Centro Ricerche Disfunzioni Meccaniche Osteolab, Benevento
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Riassunto
La lombalgia è tra i disturbi a maggior impatto sociale ed economico nel mondo occidentale. Lo studio si riferisce a 182 richieste di intervento per lombalgia pervenute al Centro Ricerche Disfunzioni Meccaniche di Osteolab (Benevento, Italia), nel periodo 2 gennaio 2019-31 maggio 2019. I dati raccolti hanno consentito di riconoscere la medicina manuale come idonea ed efficace nel trattamento del dolore e nella risoluzione delle lesioni funzionali da cui lo stesso scaturisce (t=84.354, p<.0001). Hanno altresì consentito di definire in che termini quantitativi e qualitativi le lesioni (classificate come DL0, DL1, DL2, DL3, DL4), incidano sull’insorgenza del mal di schiena, ma anche di comprendere quanto la presenza dei “segni di ipotrofia” (inquadrati come biomarcatori) sia coinvolta nello sviluppo dello stesso.
Summary
Low back pain is among the disorders with the greatest social and economic impact in the Western world. The present study refers to 182 requests for intervention for low back pain received by the Research Center of Mechanical Dysfunctions of Osteolab (Benevento, Italy), in the period January 2, 2019 - May 31, 2019. The data collected made it possible to recognize manual medicine as suitable and effective therapy in pain treatment and in the resolution of functional lesions from which it arises (t = 84.354, p <.0001). The data collected also made it possible to define - both in quantitative and qualitative terms - how much the lesions (classified as DL0, DL1, DL2, DL3, DL4) affect the onset of back pain, but also to understand how much the presence of "signs of hypotrophy" (considered as biomarkers) is involved in its development.
Parole chiave  
Lombalgia, studio osservazionale, lesioni funzionali, ipotrofia, medicina manuale, chiropratica, osteopatia
Key words
Low back pain, observational study, functional injiuries, hypotrophy, manual medicine, chiropratic, osteopathy

Introduzione
Le lombalgie subacute e croniche sono tra i disturbi a più alto impatto sociale, soprattutto nel mondo occidentale, talvolta assumendo una notevole importanza non solo dal punto di vista medico, ma anche socio-economico.1 Si tratta infatti di disturbi che comportano altissimi costi individuali e sociali, sia in termini di indagini diagnostiche e interventi terapeutici siadi riduzione della produttività, con limitazioni sostanziali delle attività di vita quotidiana.2

Classificazione
La persistenza del dolore definisce tre fasi temporali a cui corrispondono tre gradi di severità:
- La fase acuta ha una durata inferiore a quattro settimane, è caratterizzata da sintomatologia dolorosa intensissima e altamente invalidante. Riguarda il 75-90 per cento dei pazienti visti in ambulatorio per le cure primarie. Secondo la letteratura, previa idonea cura farmacologica, tenderebbe a migliorare nell’arco di un mese.3
- La fase subacuta ha una durata che si prolunga dalle quattro settimane ai tre mesi. Riguarda il 25-50 per cento dei pazienti ed è una condizione morbosa caratterizzata da una sintomatologia dolorosa discretamente intensa, a potenziale rischio di disabilità: nonostante la cura farmacologica, i sintomi minimali permangono, ovvero si riacutizzano nel corso dell’anno a seguire.
- La fase cronica ha una durata che si protrae oltre i tre mesi. Riguarda il 6-10 per cento dei pazienti ed è caratterizzata da costante sintomatologia, moderatamente dolorosa, ad alta disabilità. In essa, la cura farmacologica risulta evidentemente non efficace.4
Numerosi studi prospettici hanno cercato di identificare gli elementi in grado di predire episodi di lombalgia acuta e di definire i meccanismi che determinano la transizione da dolore acuto a dolore cronico, ovvero lo sviluppo di condizioni d'invalidità.5  Gli unici dati certi però, riguardano aspetti eziologici che si accompagnano a fattori molteplici:6
• L’aumento della rigidità, con conseguenti contratture muscolari che a loro volta ostacolano, ancor di più, il libero movimento;
• L’aumento delle pressioni e perdita potenziale delle funzioni di ammortizzazione svolta dai dischi intervertebrali .
La lombalgia è quindi il risultato di una serie di fattori che, quotidianamente, condizionano solo indirettamente la colonna vertebrale (forza di gravità, sedentarietà, fattori psicologici, emozioni, attività lavorativa, problemi degenerativi, eccetera), poiché inevitabilmente in carico alle strutture di sostegno (muscoli), cui spesso si associano fattori costituzionali (patrimonio genetico, età, sesso, statura, dimensioni del canale spinale): non può e non deve, pertanto, essere considerata una patologia in senso stretto quanto, piuttosto, un’alterazione della funzione, evidentemente frutto di squilibri che coinvolgono diverse strutture corporee. Studi randomizzati hanno evidenziato che solo il 10-20 per cento delle lombalgie è provocato da un problema specifico della colonna vertebrale (patologie rachidee) mentre, per il restante 80-90 per cento interverrebbero cause non specifiche, molto spesso legate a disturbi misconosciuti a carico dei visceri.
Stante gli studi condotti da Deyo et al,5 le cause comuni di lombalgia potrebbero essere classificate come:
1. Meccaniche (80-90%)
- Cause ignote, generalmente riferite a stiramento muscolare o danno legamentoso
- discopatia degenerativa o artropatia (frattura vertebrale e/o deformità congenite)
- spondilolisi (instabilità)
2. Neurogene (5-15%)
- ernia del disco, stenosi del canale spinale, infezioni (tipo herpes zoster)
- neoformazione osteofitica sulla radice nervosa
- fissurazione anulare e conseguente irritazione chimica della radice nervosa
- sindrome da fallimento chirurgico sulla schiena (aracnoidite, adesioni epidurali, erniazioni ricorrenti)
3. Condizioni spinali non meccaniche (1-2%)
- neoplasie (primarie o metastatiche), infezioni (osteomieliti, disciti, ascessi)
- artrite infiammatoria (artrite reumatoide, spondilite anchilosante, artrite enteropatica,…)
- morbo di Paget, altro (malattia di Sheuermann o la sindrome di Baastrup)
4. Dolore viscerale riferito (1-2%)
- malattie gastrointestinali (malattie croniche dell’intestino, pancreatite, diverticolite), malattie renali (nefrolitiasi o pielonefrite)
5. Altro (2-4%)
- fibromialgia
- disturbi da simulazione (del dolore),
Su questa stessa linea, alcuni studi tenderebbero a semplificarne la classificazione distinguendo, in linea di massima, quando non secondaria ad altra causa, la sola natura meccanica o neuropatica: la lombalgia meccanica localizza il dolore nella colonna vertebrale o in qualche struttura di sostegno, descritta dal paziente come indolenzimento e pulsazioni; quella neuropatica, invece, originerebbe dall’irritazione della radice nervosa, con estensione alla gamba (al di sotto del ginocchio) e dolore assimilabile a una scarica o pugnalata.
Secondo Rubinstein,7 i fattori associati allo sviluppo ed alla persistenza del dolore lombare sono spesso da ricercare tra:
- pregresso episodio di lombalgia, scarsa soddisfazione professionale o bassa retribuzione
- inadeguate capacità di far fronte alle situazioni di stress, condotta di evitamento
- lavoro manuale o attività fisicamente stressante
- obesità, somatizzazione, fumo
- attività fisica basale scarsa, contenziosi in corso, età avanzata
- bassi livelli di istruzione, dolore di alta intensità o disabilità,
- sintomi neurologici, umore depresso, angoscia emotiva, ansia

Le dinamiche del dolore
La condizione di scarsa mobilità dettata da uno stile di vita evidentemente sedentario crea condizioni simili a quelle che si verificano nei normali processi degenerativi d’invecchiamento. La condizione di immobilità distrettuale (lunghi periodi trascorsi in posizione seduta, talvolta in posizione ergonomicamente non idonea) genera dolore e perdita progressiva di funzione, insorta per effetto degli adattamenti connettivali a una più breve distanza fra l’origine della fibra e la sua inserzione. Il prolungarsi del periodo di immobilizzazione, oltre a generare una repentina degenerazione del tessuto connettivo, determina:
- dalla terza settimana, lo sviluppo di abnormi reticoli tra fibre collagene preesistenti e nuove, alterazione della dinamica del turnover del collagene (sintesi/lisi), deposizione disordinata di nuove fibre collagene all’interno del preesistente tessuto collagene.8
- dalla nona settimana, segni di alterazione della matrice
I tessuti connettivi sono sensibili a una diminuzione delle forze meccaniche più di quanto non lo siano a un progressivo aumento.9 Alcuni autori8,10 hanno rilevato che la mancanza temporanea di stimoli meccanici (periodi di immobilità relativa) genera modifiche strutturali adattive difficilmente regredibili. Cambiamenti che sono riferibili a variazioni nell’orientamento delle fibre del connettivo, ovvero nella quantità e nella qualità della sostanza amorfa di base (tipica del tessuto connettivo) con una ridotta concentrazione di acqua e glicosaminoglicani (GAGs), da cui una riduzione della lubrificazione interfibrillare e conseguente formazione di aderenze (perdita di capacità di scorrimento) all’interfaccia fibra-fibra11,12 oltreché tra tendini e tessuto connettivo circostante. La formazione disordinata di nuove fibre collagene nel tessuto esistente, limita il movimento ed altera la plasticità delle strutture connettiva.
La proliferazione e la sclerotizzazione del tessuto fibrograssoso in area articolare, unitamente alla limitazione della capacità escursionale articolare, erosione delle cartilagini e formazione di osteofiti, rientrano tra quelle modificazioni strutturali che si verificano durante il periodo di scarso o inidoneo movimento. Esse sono in stretto rapporto di relazione all’entità di riduzione del movimento, alla durata della limitazione, alla postura adattiva maturata, alle superfici di contatto ed alle pressioni indotte sulle superfici articolari. Tanto più è lungo il periodo di limitazione della funzione, tanto più tempo sarà necessario per ripristinare una idonea capacità a muovere correttamente il comparto articolare.
Premesso quanto sopra, i dati raccolti presso il Laboratorio di Neurologia Funzionale di Osteolab (Benevento) su un campione di circa 1200 di pazienti osservati tra il 2006 e il 2011 , con uno studio condotto su ulteriori 1400 pazienti circa, tra il 2012 e il 2018, hanno consentito di definire che il dolore lombare si presenta a prevalente matrice meccanica e si sviluppa strutturandosi su due fasi ben distinte:
- di preparazione al conflitto, nella quale il tentativo di soddisfare le mutate esigenze meccaniche, genera un sovraccarico funzionale dei tessuti neuromuscolari chiamati al contenimento adattivo. Questa fase è caratterizzata dalla sofferenza della struttura neuro-muscolare, in particolare della massa comune dei muscoli lombari, del gluteo (il muscolo gluteo medio su tutti), del bicipite femorale, del vasto laterale e dei peronei; questo quadro è accompagnato dalla cronicizzazione dello stato di affaticamento ed aumento dei livelli di stress psicofisico, comportamenti maladattivi e altro ancora;
- di reazione al conflitto, nella quale vi è il tentativo di riequilibrare le tensioni dovute al mutato rapporto di forze determinato dal sovraccarico funzionale dei tessuti neuromuscolari. Questa fase è caratterizzata da raffreddamento più o meno diffuso nella zona cutanea d’interesse (loggia ileo-sacrale) e rigidità delle strutture tissutali coinvolte (soprattutto gluteo medio, vasto laterale e peronei). In questa fase hanno luogo la verosimile sclerotizzazione del connettivo e l’alterazione del trofismo muscolare, prevalentemente nelle aree lombare e sacro-iliaca (ove ha luogo l’incapsulamento adesivo dei lipomi presenti, meglio noti come noduli di Copeman) con interessamento del gluteo medio e delle inserzioni paravertebrali.
Tutto ciò scatena l’insorgenza di dolore a livello lombare che, quando non dipendente da patologia conclamata, evolve secondo 3 livelli degenerativi (qualitativi e non quantitativi):
- Ogni lombalgia è frutto di un’alterazione della funzione meccanica determinata da una limitazione motoria, scaturita da un conflitto in contro-resistenza (CCR) ovvero un trauma improvviso, inaspettato, gravissimo, che si verifica a livello tendino-muscolare coinvolgendo tutte le strutture impegnate nell’esecuzione di un lavoro, prevalentemente in fase di estensione.
- Ogni CCR determina rigidità delle strutture tendino muscolari interessate con una conseguente limitazione funzionale delle giunture articolari (sacro-iliaca, L5-S1, L4-L5).
- Ogni limitazione escursionale delle giunture articolari determina a livello vertebrale, una sofferenza del disco (con o senza protrusioni, estrusioni o fenomeni degenerativi) con eventuale riduzione dello spazio intersomatico, possibile costrizione del foramen vertebrale e conseguente potenziale compressione della radice nervosa interessata.

Obiettivi dello studio
Alla luce di quanto esposto, per meglio comprendere i meccanismi posti alla base del mal di schiena, sono stati identificati i seguenti obiettivi:
  1. Obiettivo primario: definire in che termini (quantitativi e qualitativi) le lesioni funzionali a matrice meccanica incidono sull’insorgenza del mal di schiena,
  2. Obiettivo secondario: definire i “segni di ipotrofia” quali biomarcatori della disfunzione motoria e registrare quanto incide la loro presenza nello sviluppo del mal di schiena,
  3. Obiettivo terzario: verificare l’efficacia della medicina manuale nella risoluzione delle disfunzioni motorie correlate al dolore.

Definizione dei segni di ipotrofia
Potenziali biomarcatori della disfunzione meccanica sono presenti in buona parte delle persone con dolori lombari. Questi biomarcatori  vengono spesso trascurati nella fase clinica alla ricerca più frequentemente di asintomatiche lesioni discali od ipotetiche alterazioni radicolari.
Essi consistono in uno o più lipomi (a grappolo) che causano dolore alla parte bassa della schiena, spesso evidenziati da alterazioni della funzione meccanica durante la stazione eretta, indissolubilmente legati ad alterazioni del trofismo muscolare di gluteo medio, ma anche del tensore di fascia lata, della bandelletta laterale, del vasto laterale, dei peronei e dell'elevatore lungo delle dita, che rendono difficili la seduta o qualsivoglia movimento.
Questa alterazione è stata descritta per la prima volta da Ries nel 1937 come lipoma episacro-iliaco, il cui trattamento include iniezioni di anestetici o escissione chirurgica. Poi da Copeman e Ackerman come “noduli” consistenti in erniazioni del tessuto adiposo attraverso la fascia neurovascolare al di sotto della fascia superficiale.13
All'indagine ecografica, l’immagine appare come una lesione ipoecogena del sottocute, ben circoscritta non vascolarizzata in corrispondenza della parte superiore della cresta iliaca (in uno o in entrambi i lati).
L’esame obiettivo evidenzia:
- Nella fase ispettiva – sensibile riduzione del trofismo (massa muscolare), soprattutto della struttura glutea; postura generalmente antalgica, con la muscolatura lombare paravertebrale in stato di ipotrofismo monolaterale soprattutto nella fase acuta dell’alterazione; rachide lombare tendente a perdere la sua fisiologica lordosi; bacino in disallineamento con contestuale difficoltà alla deambulazione; dolore lombare (segmento di interesse) accentuato dai movimenti del rachide (soprattutto latero-flessione dal lato opposto) e dal ponzare.
- Nella fase palpatoria – strutture nodulari presenti lungo il decorso dell’osso iliaco, la cui palpazione provoca fastidio (iperestesia) o dolore, localizzato o esteso alle gambe (bandeletta laterale, vasto laterale e bicipite femorale, estensore lungo delle dita del piede, peronei, estensore lungo dell’alluce); fibrosità della muscolatura paravertebrale e glutea; deficit della sensibilità (addormentamento) o della funzione muscolare (evidente perdita di forza).
A livello lombo-sacrale, come evidenziato anche attraverso pratica dissettoria condotta presso l’Universitè Bordeaux Segalen, questa condizione pone in evidenza due tipologie di segni:
  • struttura lipomica (nel numero di una o più per lato), affusolata nella forma e variabile nelle dimensioni (fino a cinque centimetri circa di lunghezza; fino a tre centimetri di larghezza), posta lungo il margine della cresta iliaca, unilateralmente o bilateralmente, incapsulata in tessuto fibrotico rigido, relativamente voluminosa.
  • adesione patologica contratta del tessuto fibroconnettivale, avente l’aspetto tipico di una membrana sclerotica ricoprente l’intera fascia toraco-lombare nella sua porzione lombo-sacrale (estensione legata all’intensità e alla durata del processo infiammatorio).

Materiali e metodi
Onde evitare condizionamenti, si è scelto di non prendere in considerazione diagnosi già formulate ed esami strumentali condotti ovvero le terapie di volta in volta prescritte quanto, piuttosto, il dolore e le sue forme, le aree di irradiazione, la capacità a contrarsi e/o di movimento dei distretti muscolari interessati, la postura in stazione eretta oltre che il movimento nello spazio.
Per questi motivi, lo studio si è sviluppato come segue:
- Accesso e registrazione del paziente; a ciascun paziente è stato assegnato un numero d’ordine
- Raccolta dati anamnestici, iter terapeutico già affrontato e situazione clinica attuale;
- Valutazione lesioni funzionali in essere, contrassegnando tra gli altri
- SI1, quali “Segni di Ipotrofia Attivi”
- SI2 quali “Segni di Ipotrofia Silenti”
- Registrazione delle alterazioni funzionali riscontrate
      - DL0 – lombalgia
      - DL1 – dolore con incapacità a muovere
      - DL2 – dolore trafittivo sul margine superiore alla cresta iliaca, esteso al gluteo con incapacità a muovere
      - DL3 – dolore trafittivo, esteso a gluteo e gamba (tagliente sulla porzione latero-posteriore)
      - DL4 – dolore trafittivo, esteso a gluteo, gamba (tagliente porzione latero-posteriore) e coscia (sordo)
- Definizione iter terapeutico.
La proposta di un modello alternativo di valutazione del dolore fonda le sue basi sulla necessità di evitare una diagnosi incoerente, ovvero di creare un rapporto di relazione tra lesione funzionale clinicamente rilevabile, lesione strutturale (eventuale) strumentalmente registrata e sintomatologia soggettiva descritta dal paziente.

Pazienti
Al progetto sono stati ammessi tutti i pazienti con necessità di un intervento mirato alla risoluzione del mal di schiena, sia esso in fase acuta (insorto da almeno 3 giorni), subacuta (insorto da più di quattro settimane) che cronica (insorto da più di dodici settimane).
Di sicuro interesse rilevare che, prima di accedere in struttura, secondo prassi terapeutica ordinaria:
  • A ciascun paziente, il medico curante o il terapista di fiducia hanno raccomandato riposo assoluto associato all’assunzione di antinfiammatori non steroidei e, all’uopo, di cortisone;
  • i farmaci assunti (in linea di massima) non sono stati in grado di produrre effetti poiché il dolore è stato evidentemente determinato da causa meccanica (spostamento del baricentro);
  • la procedura diagnostica, spesso basata sull’imaging strumentale, registrando la sola “lesione strutturale”, si è dimostrata incapace di rilevare il rapporto di relazione in essere tra la lesione stessa e il dolore denunciato.
Terapie pregresse
  • 54 casi (29,9%) hanno affrontato a vario titolo cicli di tens, tecar, ultrasuoni e/o massaggi, in combinazione con fans, miorilassanti e cortisone.
  • 85 casi (46,9%) hanno fatto uso di farmaco da banco per automedicazione.
  • 42 casi (23,2%) non hanno fatto uso di farmaci.
Diagnosi di presentazione
  • in 147 (80,1%), forme di discopatia
  • in 103 (56,5%), sciatalgia
  • in 51 (28%), stenosi canale spinale
  • in 37 (20,3%), compressioni radicolari
  • in 8 (4,3%), forme di spondilolistesi
  • in 7 (3,8%), spondilite
  • in 6 (3,2%), colite
  • in 6 (3,2%), coliche renali
  • in 5 (2,7%), crolli vertebrali
  • in 3 (1,6%), prostatite
  • in 3 (1,6%), alterazione funzionalità urinaria
  • in 2 (1,1%), spondiloliscite
  • in 1 (0,5%), appendicite
  • in 1 (0,5%), coliche biliari
  • in 1 (0,5%), spina bifida
  • in 1 (0,5%), sindrome della cauda equina
  • in 1 (0,5%), tumore del colon
  • in 1 (0,5%), tumore alla prostata
  • in 1 (0,5%), crisi convulsiva

L’utilità della diagnostica per immagini è limitata dall’alta prevalenza di patologie degenerative in adulti asintomatici. Circa il 30 per cento di soggetti asintomatici presenta una protrusione discale alla risonanza magnetica, più della metà ha dischi intervertebrali rigonfi o degenerati, e un quinto risulta avere fissure anulari erniate.14
Escluse cause gravi diverse attraverso la diagnosi differenziale, l’esame obiettivo (teso a ricercare segni fisici, evidentemente soggettivi poiché dipendenti dalle condizioni specifiche del paziente) ha consentito di individuare motivi scatenanti e strutture originanti l’alterazione, da cui si è poi sviluppata la sintomatologia dolorosa. In tanti dei casi arruolati, sono state registrate alterazioni del sensorio, apparente debolezza neurologica, evitamento antalgico del movimento, riflessi rotulei e achillei ridotti o nulli.

Evidenze cliniche comuni
La valutazione clinica ha posto in evidenza diversi elementi comuni a tutti i casi trattati:
1. all’esame ortostatico, a vario titolo, si è registrata
- una generale cattiva distribuzione dei carichi sulla soglia plantare;
- l’apertura podalica asimmetrica;
- crollo funzionale di uno (o entrambi) gli assi calcaneari;
- intrarotazione asimmetrica delle tibie (con sviluppo impari di volume e tono dei muscoli elevatore lungo delle dita, peronei e tibiale);
- valgismo asimmetrico delle ginocchia;
- intrarotazione asimmetrica delle ginocchia (con o senza recurvatum);
- alterazioni meccano-funzionali del bacino (inclinazione, slittamento, rotazione, antero/retro pulsione);
- alterazione adattiva delle curve fisiologiche del rachide;
- disallineamento dell’asse delle spalle.
2. All’esame palpatorio, l’esecuzione di test specifici  (quelli ritenuti più adatti al caso tra Lasègue, Wasserman, Valsava, Bragard, Thomsen, Yeoman, Bonnet e Hoover), non si è rivelato utile poiché tutti scarsamente specifici e largamente interpretabili, quindi poco attendibili. Di frequente si è inoltre registrata:
- scarsa mobilità specifica, spesso condizionata dalla compromissione funzionale e dalla tolleranza al dolore;
- rigidità della porzione laterale della gamba (verosimilmente in carico ai muscoli peroneo lungo, peroneo breve ed elevatore lungo delle dita) ovvero della coscia posteriore (verosimilmente in carico ai muscoli bicipite femorale e vasto laterale) e/o del gluteo (verosimilmente medio gluteo e grande gluteo nel suo decorso inserzionale sacro iliaco);
- dolore (spesso urente) dell’area retro malleolare esterna, del muscolo peroneo breve e/o dell’inserzione iliaca del grande/medio gluteo.
Valutato il livello di mobilità, l’ostacolo primario sembra essere dato dalla compromissione funzionale e dai livelli di percezione del dolore.
La palpazione dei diversi segmenti vertebrali non si è rivelata utile alla definizione specifica delle alterazioni in essere. La palpazione delle aree interessate dal dolore ha consentito di verificare la presenza e la reattività dei “segni di ipotrofia”, consistenti in:
- Segno 1 di ipotrofia – struttura lipomica, posta lungo il margine della cresta iliaca, unilateralmente o bilateralmente (condizione dettata dalle caratteristiche dell’alterazione in atto). Fibrotico, rigido, voluminoso e sintomatico, pone il paziente in condizioni tali da lamentare sintomi riconducibili ad una lombalgia, con dolore urente (trafittivo).
- Segno 2 di ipotrofia – adesione patologica contratta del tessuto fibroconnettivale, con estensione legata all’intensità e alla durata del processo infiammatorio. Fibrotico e rigido, in sua presenza il paziente lamenta sintomi riconducibili a una lombalgia, con dolore urente (estensivo).

Procedura interventistica
Tradizionalmente, il trattamento del dolore lombare è solito avvalersi di due tipologie di approccio:
• Conservativo: è il primo ad essere considerato per qualsiasi condizione (sia essa acuta, subacuta o cronica). Il trattamento conservativo ha, nella fase acuta e subacuta, lo scopo di ridurre la sintomatologia, prevenire le recidive, ridurre la disabilità e il rischio di cronicizzazione. I protocolli redatti dal sistema sanitario prevedono che nei casi di lombalgia cronica si distingua l'intervento sintomatico (farmacologico e strumentale) da quello terapeutico rieducativo-funzionale (terapia fisica e manuale), per il quale si rende necessaria la quantificazione delle difficoltà vissute dal paziente nel corso della quotidianità, con interventi che spesso richiedono multidisciplinarietà. Il trattamento conservativo per mezzo di farmaci antinfiammatori e decontratturanti, ovvero le terapie strumentali, si sono dimostrati spesso utili al solo controllo del dolore. Nelle linee guida pratiche pubblicate congiuntamente dall'American College of Physicians e dall'American Pain Society (2007), vengono citate alcune buone evidenze che supportano la terapia manuale per la lombalgia, soprattutto subacuta (più di quattro settimane) e cronica (più di dodici settimane) .
• Non conservativo (chirurgico), preso in considerazione solo in condizioni refrattarie al trattamento conservativo, con deficit neurologico severo.
In ambito ovviamente conservativo e in un’ottica rieducativo-funzionale, condotta una valutazione delle condizioni iniziali, sono stati strutturati tre bracci di trattamento, definiti in relazione alle necessità terapeutiche:
• braccio A, primario – terapia manuale (chiropratica e osteopatia)
• braccio B, integrativo (eventuale) – terapia propriocettiva
• braccio C, integrativo (eventuale) – chinesiterapia (rieducazione della funzione motoria)
L’iter terapeutico è stato strutturato come segue:
• Terapia Manuale (TM) – tutti i pazienti sono stati trattati con un numero di sedute (in media una seduta di trattamento a settimana) e tipologia di tecniche definite in relazione alle necessità di volta in volta presentatesi (attuali condizioni fisiche e di salute del paziente), con follow-up a sette giorni dalla fine dell’ultimo trattamento.
• Terapia Propriocettiva (TP) – laddove necessario, i pazienti sono stati sottoposti a valutazione posturale onde definire le asimmetrie strutturali e gli squilibri funzionali. In esito ad essi sono stati adottati supporti plantari propriocettivi tesi a migliorare la distribuzione dei carichi sulla soglia plantare.
• Chinesiterapia (C) – laddove necessario, i pazienti sono stati sottoposti a test muscolari tesi a valutare capacità di equilibrio e coordinazione motoria, di esecuzione di uno specifico gesto motorio, di espressione della forza. Per ciascun paziente è stato elaborato un programma di lavoro teso a correggere la funzione motoria.
Il protocollo d’intervento non ha richiesto l’utilizzo di farmaci. Le tecniche di terapia manuale sono state mutuate dalla letteratura chiropratica e osteopatica, opportunamente combinate tra loro. La terapia domiciliare assegnata ha previsto l’utilizzo di fonti di calore (cerotti, cuscini o pomate riscaldanti) da applicare in loco, opportunamente accompagnate da idonei esercizi di rieducazione (a matrice concentrica) ovvero di scarico e allungamento muscolare.
applicare in loco,

Definizione iter terapia manuale
La scelta delle tecniche di volta in volta utilizzate è stata dettata da condizioni generali del paziente, sintomi denunciati, alterazioni funzionali registrate, eccetera.
Considerato che le tecniche di mobilizzazione devono essere usate secondo necessità ed opportunità, graduate in base al feedback del paziente, alla definizione dell’iter terapeutico ed all’esperienza clinica dell’operatore, nel trattamento dei disturbi tipici del “mal di schiena”, si ritiene sia utile prendere in considerazione diverse fasi d’intervento: grado, arco di movimento, forza, direzione, velocità e durata appropriati, idonei al raggiungimento degli scopi specifici del trattamento.9  
La prassi stabilita per i pazienti ammessi allo studio ha previsto la codifica di due momenti principali:
• fase neuromuscolare e connettiva, finalizzata a ridurre le rigidità tissutali, migliorandone funzione. Le mobilizzazioni tissutali lente, progressive e prolungate, con movimenti delicati ma decisi, rispettosi o meno della direzione di fibra, all’uopo associati a pressioni ischemiche, devono puntare a:
- ripristinare la mobilità dei tessuti salvaguardando il movimento tissutale fisiologico (risoluzione delle aderenze in essere);
- produrre iperemia locale per diminuire il dolore e regolare il flusso di substrati e metaboliti (eliminazione delle tossine infiammatorie);
- orientare le fibre di collagene nel modo più idoneo, così da resistere ai carichi di natura meccanica (aumento delle capacità elastiche tissutali);
- stimolare i meccanocettori per inibire i messaggi afferenti nocicettivi (eliminazione del dolore).
Studi condotti da Warren et al (1971) dimostrarono che l’applicazione combinata di calore e carico su tendine, influenzando notevolmente le proprietà del flusso viscoso del collagene, era in grado di determinare un allungamento dello stesso tessuto, con scarsa incidenza di microlesioni (direttamente proporzionale alla temperatura selezionata). L’innalzamento della temperatura locale tra i 40 ed i 45 gradi determina un effetto termico terapeutico simile a quello ottenuto con gli ultrasuoni che agiscono selettivamente riscaldando il tessuto collagene.
• Fase articolare, che ha visto dapprima il raggiungimento di un arco di movimento non doloroso eseguito con una certa forza meccanica, così da stimolare l’orientamento delle fibre di collagene (incremento dell’agitazione del liquido tissutale, prevenzione o risoluzione di aderenze tra fibre, effettuazione di stiramenti longitudinali, ripristino della normale funzione, riduzione di eventuali corpi mobili liberi); quindi il raggiungimento del massimo arco disponibile (barriera funzionale), prolungando per qualche secondo la permanenza in posizione, così da determinare l’allungamento permanente del collagene (interruzione delle aderenze capsulari, riduzione del dolore e miglioramento della funzione). In ultima analisi una manovra di minima ampiezza e massima velocità sviluppata alla fine dell’arco di movimento (barriera strutturale), tale da sbloccare l’articolazione, riducendo lo spostamento intra-articolare, eliminando la condizione di compressione e iperpressione (interruzione di aderenze periferiche), così limitando al massimo ogni fattore di rischio  e ripristinando una funzione completa in modo indolore.
Risultati
I dati statistici rilevati attraverso il presente studio osservazionale, oltre a dimostrare la validità del protocollo e l’efficacia delle tecniche, hanno evidenziato una riduzione significativa della sintomatologia iniziale (t=84.354, p<.0001). Di 182 pazienti valutati (100 di sesso maschile e 82 femminile), si è registrata una media di:
• 23,3 giorni di durata del dolore pregresso;
• 8,25 punti dolore all’arruolamento;
• 0,3 punti dolore al licenziamento;
• 1,4 sedute di terapia praticate utili al recupero della funzione.

Classificazione del dolore
- 62 casi (34%), di cui 16 con SI1 (25,8%), sono stati classificati come DL0 (dolore in area lombare) e portati in correzione con
  • 1 seduta in 59 casi
  • 2 sedute in 3 casi
- 76 casi (41%), di cui 39 con SI1 (51,3%), sono stati classificati come DL1 (dolore in area lombare, con incapacità a muovere) e portati in correzione con
  • 1 seduta in 64 casi
  • 2 sedute in 10 casi
  • 3 sedute in 2 casi
- 19 casi (10%), di cui 13 con SI1 (68,4%), sono stati classificati come DL2 (dolore lombare esteso al gluteo con incapacità a muovere) e portati in correzione con
  • 1 seduta in 7 casi
  • 2 sedute in 10 casi
  • 3 sedute in 2 casi
- 14 casi (7%), di cui 9 con SI1 (64,2%), sono stati classificati come DL3 (dolore lombare, esteso a gluteo e gamba, nella porzione latero-posteriore) e portati in correzione con
  • 1 seduta in 1 caso
  • 2 sedute in 8 casi
  • 3 sedute in 4 casi
  • 5 sedute in 1 caso
- 11 casi (6%), di cui 9 con SI1 (81,8%), sono stati classificati come DL4 (dolore lombare, esteso a gluteo, gamba e coscia, porzione latero-posteriore) e portati in correzione con
  • 2 sedute in 1 caso
  • 3 sedute in 5 casi
  • 4 sedute in 5 casi

Lesioni focali
- 86 casi su 182 (47,2%) hanno mostrato la presenza di SI1 (attivi)
  • - 9 casi (10,4%) con DL4
  • - 9 casi (10,4%) con DL3
  • - 13 casi (15,2%) con DL2
  • - 39 casi (45,4%) con DL1
  • - 16 casi (18,6%) con DL0
- 42 casi su 182 (23,1%) hanno mostrato la presenza di SI2 (silenti)
  • - 24 casi (57,2%) con DL0
  • - 16 casi (38,2%) con DL1
  • - 1 caso (2,3%) con DL2
  • - 1 caso (2,3%) con DL3
- 25 casi su 182 (13,7%) hanno manifestato un conflitto delle faccette articolari (C.F.A.) con dolore vertebrale spontaneo
  • - 6 casi (24%), segmento D12/L1
  • - 7 casi (28%), segmento L2/L3
  • - 10 casi (40%), segmento L3/L4
  • - 2 casi (8%), segmento L4/L5

Terapia integrativa
• per 22 casi (12,1%) si è ritenuto dover intraprendere un percorso di rieducazione della funzione motoria
• per 40 casi (21,9%) si è ritenuto dover intraprendere un percorso di riequilibrio plantare ed attivazione muscolare propriocettiva
• per 120 casi (66%) non la si è ritenuta necessaria

Efficacia protocollo d'intervento
-133 casi (73,1%) hanno recuperato la piena capacità funzionale in assenza di dolore
  • 85 casi (62,9%) con 1 seduta di trattamento
  • 40 casi (30,1%) con 2 sedute
  • 7 casi (5,4%) con 3 sedute
  • 2 casi (1,6%) con 4 sedute
- 24 casi (13,3%) hanno recuperato piena capacità funzionale, pur mantenendo forme di rigidità muscolare
  • 12 casi (50%) agli arti inferiori
  • 5 casi (20,8%)ai flessori del ginocchio
  • 5 casi (20,8%) in area lombare
  • 2 casi (8,4%) a semitendinoso e semimembranoso
- 29 casi (15,9%) di affaticamento che, in 12 casi (41,3%), è stato espressamente riferito agli arti inferiori
- 5 casi (2,7%) di dolenzia

Conclusioni
Lo studio evidenzia quanto la causa meccanica “ascendente” sia da considerarsi predominante rispetto a qualsivoglia altra ipotesi (discopatia, compressione radicolare, eccetera), che di quella costituisce spesso solo una naturale conseguenza. La forma e l’organizzazione spaziale del corpo (postura eretta), sia in fase statica che dinamica, sono frutto di continui compromessi (equilibrio) che il corpo raggiunge con l’ambiente che lo circonda e sono mantenuti grazie alla persistente contrazione (tono posturale) di gruppi muscolari (sistema di stabilizzazione verticale – Karl Lewit) la cui funzione principe, che si sviluppa per via ascendente utilizzando i meccanismi anticipatorio e compensatorio, è quella di opporsi alla forza di gravità. Le alterazioni meccaniche ovvero le asimmetrie strutturali da cui scaturisce il dolore, rappresentano la rottura di quel compromesso iniziale: tutti gli stati di ipotrofia e/o rigidità cronica monolaterale di muscoli dinamici pari, tali da determinare un fuori asse del bacino, sono dovuti ad alterazioni del sistema di stabilizzazione verticale (alterazione posturale). La permanenza nello stato di alterazione determina quel danno parenchimale che rende ingravescente la sensazione dolorifica.
Le osservazioni circa l’eziologia del mal di schiena dimostrano quanto improbabile sia che il mal di schiena possa essere determinato da discopatia o stenosi del canale spinale. A prescindere dalle diagnosi formulate, ogni caso studiato ha mostrato alterazioni più o meno importanti, riferite alla funzione meccanica di piedi e arti inferiori con inevitabili ricadute sugli equilibri di bacino e rachide. In particolare, lo stato di alterazione è da riferire al tono della muscolatura direttamente coinvolta nella strutturazione dell’arco plantare, nell’allineamento di tibia e femore, nell’equilibrio del bacino e nella strutturazione delle curve fisiologiche del rachide. È infatti frequente imbattersi in casi di crollo funzionale dell’arco plantare, intrarotazione delle ginocchia, fuoriasse del bacino e perdita delle curve fisiologiche del rachide. Ad apparire quindi come dolenti si sono rivelati sempre i distretti muscolari maggiormente coinvolti nell’alterazione (stabilizzatori latero-posteriori: elevatore lungo delle dita del piede, peronei, tibiale, vasto laterale, tensore di fascia lata, gluteo medio). In alcun caso si sono osservati segni di sofferenza neuropatica (dolenzia tronculare) o radicolare (dolenzia metamerica). Quando presenti, pertanto, le forme di sofferenza discale (disidratazione, protrusione, erniazione ed estrusione) si ritiene siano da considerarsi sempre non come “causa di dolore”, ma come semplice “conseguenza” di un’alterazione meccanica: l’adattamento della colonna vertebrale agli squilibri in carico a piedi ed arti inferiori, pone le basi per una graduale perdita delle curvature fisiologiche, esponendo i dischi a un progressivo aumento dei carichi verticali.
Non è un caso, infatti, che il dolore sia solito apparire dapprima in prossimità della regione sacroiliaca, irradiato alla porzione laterale del gluteo, con un'ingravescenza della sintomatologia che coinvolge peronei, elevatore lungo delle dita del piede e, solo in ultima analisi, la parte superiore della coscia con tensore di fascia lata, bicipite femorale e vasto laterale.
Considerata la frequente condizione di retropulsione del bacino e il conseguente adattamento del rachide (verticalizzazione), la dolenzia determinata da posizione seduta prolungata e/o flessione in avanti del tronco, non è quindi da ritenere tipica di una discopatia o stenosi del canale vertebrale, ma semplicemente l’espressione di una incapacità della muscolatura lombare di sopportare lo stress ingenerato dalla malsana posizione assunta. Se poi si considera che la compressione midollare (stenosi) non è in grado di produrre dolore ma, tutt’al più, un riferimento extrasegmentale della parestesia 15,16 debolezza muscolare  con andatura spastica (lesione del primo motoneurone) e risposta riflessa plantare estensoria, sarà più semplice concepire dolenzia (urente), perdita di sensibilità e formicolio, come probabilmente dipendenti da una condizione di rigidità cronica in carico a un determinato gruppo muscolare in evidente stato di alterazione funzionale (per effetto dello stato compressivo e vasocostrittivo).  
Alla luce dei dati rilevati, è altresì evidente che i segni di ipotrofia giochino un ruolo di primo piano non solo nell’ingravescenza della sensazione dolorifica, ma anche nella limitazione motoria che da essa scaturisce. La loro presenza è stata a vario titolo registrata in ben 127 (69,8%) casi:
  • 86 casi attivi e dolenti di cui ben 52 (39 in DL1 e 13 in DL2) intervenuti direttamente nella fase di limitazione al movimento
  • 42 casi silenti, conseguenza presumibile di alterazioni pregresse ormai compensate, ma non necessariamente risolte. Presenti prevalentemente nel dolore lombare (24 in DL0 e 16 in DL1), il loro tessuto appare sclerotico, apparentemente asintomatico, sebbene doloroso al tatto. L’osservazione condotta su circa 2400 pazienti nel periodo 2006-2018, ha consentito di verificarne l’assoluta capacità di aumentare di volume, rigidità e dolenzia.
Di sicuro interesse appare  che tanto è maggiore è l’astensione dell’area in stato di alterazione, maggiore è la percentuale di presenza dei SI1:
  • 25,8% dei DL0 (16 su 62)
  • 51,3% dei DL1 (39 su 76)
  • 68,4% dei DL2 (13 su 19)
  • 64,2% dei DL3 (9 su 14)
  • 81,1% dei DL4 (9 su 11)
Considerato quanto sopra, l’ipotesi di definirli biomarcatori della disfunzione motoria può certamente essere avallata. Approfondirne la conoscenza, può aiutare a prevenire l’insorgenza del dolore ovvero consentire la strutturazione di un idoneo programma di recupero funzionale, così evitando inutili, costosi, spiacevoli e spesso dannosi protocolli farmacologici, talora supportati da altrettanto inidonei protocolli di terapia fisica e strumentale.
Sebbene dolorosa per il paziente e faticosa per il terapista, la pratica manipolativa condotta si è rivelata estremamente utile nel trattamento di lesioni acute o croniche.
L’intervento neuromuscolare atto a produrre iperemia meccanica (eventuale aumento della flogosi), provocando vasodilatazione di cute e tessuti profondi, facilitando l’eliminazione delle sostanze infiammatorie. Assunto che le strutture viscoelastiche posseggono la proprietà di scivolamento e isteresi (capacità di reagire a una stimolazione), l’applicazione di una forza adeguata sfrutta il fenomeno del flusso viscoso relativo alle strutture del tessuto connettivo.
Le manovre articolari, sono state utilizzate in tutti pazienti con limitazioni fisiologiche di movimento vertebrale, generalmente associate a dolore vertebrale spontaneo e a sintomatologia segmentaria (25 casi pari al 13,7% del campione), anche in piena fase infiammatoria. Condotte sulle zone direttamente interessate dalla lesione, hanno consentito un immediato ripristino della capacità escursionale articolare con conseguente miglioramento della sintomatologia dolorosa riferita . Il movimento ripetuto tipico della mobilizzazione ed il rapido gesto manipolativo, inoltre, hanno avuto efficacia riflessa nei confronti dei muscoli intrinseci paravertebrali, così vincendo lo stato tensivo che è proprio dell’articolazione quando viene portata nei gradi massimi di escursione, con o senza movimento finale di thrust (risolutivo in 25 casi, pari al 13,7 per cento dei pazienti).
Dalla disamina dei dati raccolti con il presente studio, risulta evidente che:
  • 133 pazienti hanno ottenuto un recupero completo;
  • 24 pazienti un recupero ottimale seppur con qualche forma di rigidità muscolare;
  • 29 pazienti un buon recupero con forme di affaticamento muscolare;
  • 5 pazienti un buon recupero, sebbene segnato da forme di dolenzia.
E' opinione degli autori, a differenza di quanto affermato nelle linee guida pratiche pubblicate congiuntamente dall'American College of Physicians e dall'American Pain Society nel 2007 (volte a citare solo alcune buone evidenze che supportano la terapia manuale per la lombalgia in fase subacuta e cronica), che non solo è possibile ottenere un recupero pieno della capacità funzionale in totale assenza di dolore in fase acuta (ottenuto in 106 casi su 182, pari al 57,7% dei pazienti), ma si va ben oltre le “alcune buone evidenze” quandanche si parli di fase subacuta e cronica (di 76 casi su 182, solo 5 pazienti – pari al 2,7% – hanno denunciato dolenzia al follow-up). Sicuramente determinante, per la strutturazione di un protocollo di lavoro assolutamente valido ed efficace, appare la classificazione dei pazienti in relazione alla tipologia di dolore manifestato.

Conflitto di interessi
Gli autori dichiarano che l'articolo non è sponsorizzato ed è stato redatto in assenza di conflitti di interesse.
Published
26th October 2021
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